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Mac_max
CAT_IMG Posted on 8/4/2010, 14:05




Salve a tutti, ho 16 anni e scrivo racconti da quando ne avevo 9-10.
In terza media ho cominciato un romanzo fantascentifico/mitologico che ho finito in seconda liceo. Non è proprio il massimo, perciò ho deciso di farlo pubblicare a pagamento. Eccolo qui su ibs: www.ibs.it/code/9788896274347/tamborrino-marco/crono.html
Come avrete capito dalla trama, la mia passione è la mitologia greco/romana.
Adesso ho 16 anni, e ho da poco iniziato un nuovo romanzo, ancora senza titolo, ma che sicuramente sarà incentrato sulle emozioni fondamentali dell'adolescenza, in particolare l'amicizia. Dal punto di vista tecnico si tratta di un fantasy, ma non è neanche lontanamente simile al classico: eroe-oggetto magico-nemico-vittoria/sconfitta, è qualcosa di differente. Scritto in modo semplice e divertente per un pubblico più che altro giovane. Vi metto in allegato il prologo e la premessa della prima parte. Chi vorrà essere così gentile da leggerlo e darmi un parere, sappia che mi fa un grande favore. Grazie in anticipo, Marco.
P.s. no, la lingua della premessa della prima parte non è latino xD

PROLOGO



Una lenta melodia serpeggiava tra gli alberi, salutava le foglie, accarezzava i fiori, e moriva sul prato.
Era una magia. Un incantesimo della natura allo stato puro. Qualcosa che la ragione non poteva spiegare: il vento che si insinuava in quel verde fogliame ricco di vita, d’amore e di gioia.
In quel mare di pace c’era un edificio. Una costruzione completamente bianca immersa nel verde e il rosa della primavera; il contrasto col cielo azzurro era spiazzante.
Si trattava di una situazione che tutti sognano di vivere, dove ti puoi sentire in pace con te stesso, e dove vorresti esistere, anche solo per un istante, e poi spegnerti per sempre.
Eppure era tutto vero. Quel luogo esisteva realmente, e della gente ci abitava. L’edificio non era che una piccola parte di una cittadina situata lì vicino.
Aveva una certa grandezza; composto da tre piani e due giardini esterni, appariva maestoso e severo a tutti coloro che lo osservavano per la prima volta.
La giornata sull’isola era appena iniziata, e come da consuetudine, gli studenti della città si recavano verso quel luogo per studiare.
Non era uno studio molto lontano da quello del nostro mondo; quel posto infatti si trovava in un universo lontanissimo, creato dall’infinità della fantasia umana, infinità che solo la mente di un bambino e, raramente anche di un ragazzo, poteva raggiungere.
Si potevano cercare i confini di quel mondo senza nome, girarlo in lungo e in largo, e per sempre andare avanti, avanti fino a che la morte non avrebbe spezzato il filo della vita.
Isole, arcipelaghi, mari, montagne, valli, laghi, colline, deserti e oceani. Ecco un mondo infinito e fantastico, un mondo quasi del tutto in pace e in serenità con sé stesso. I suoi popoli si combattono come si combatte nel nostro mondo, e anche perché i bambini sognano le battaglie in continuazione.
Ogni mondo, però, ha un suo equilibrio, più o meno precario. Tale equilibrio poteva essere violato soltanto da ciò che dava vita a quell’universo: la terra stessa.
I piedi di quelle persone calpestavano la propria linfa vitale; se la terra si fosse ammalata, allora sarebbero morti tutti, dal primo all’ultimo.
I giovani studiavano per mantenere il più possibilmente stabile quest’equilibrio. Era uno studio approfondito della terra, delle piante e delle proprietà dell’acqua. Dovevano saper riconoscere tutti gli animali esistenti, come comportarsi con loro e dove trovarli.
Quella era un’Accademia per soli maschi, situata agli estremi di un enorme arcipelago, dove le vicissitudini della vita aristocratica delle isole più grandi giungevano abbastanza ovattate.
Un ragazzo, dai capelli neri, lucidi e ricci e dall’aria severa, camminava a passo lento verso la grande costruzione. Il suo nome era Jale, sedici anni, atteggiamento determinato.
Alla cintola portava un piccolo coltello ammaccato e pieno di tagli; vestiva una leggera casacca di lino, senza maniche, che gli lasciavano scoperti i giovani muscoli delle braccia.
I calzoni erano corti e lasciavano intravedere le gambe dal ginocchio in giù. Infine, un paio di scarpe abbastanza malridotte completavano l’abbigliamento.
Quando giunse all’Accademia, appoggiato al cancello, incontrò un altro giovane studente, a lui ben noto, vestito allo stesso modo. Si trattava infatti di Alar, il suo migliore amico.
«Hey, Jale!»
Lo salutava sempre con quella sua aria beffarda, le braccia incrociate al petto e il viso nascosto da un berretto verde.
Alar era il suo esatto opposto: impulsivo e vivace, al contrario di lui, che la maggior parte delle volte, era serio e osservava il mondo con occhio critico.
Forse era per questo motivo che erano così amici: ognuno dei due aveva bisogno dell’altro per completarsi.
«Al.» rispose Jale, accennando un sorriso. Fissò i suoi occhi azzurri in quelli color ambra dell’amico.
Alar sollevò il berretto e si massaggiò la testa. I biondi capelli a caschetto gli ricaddero sugli occhi. «Ma dove ti eri cacciato? Dannazione Jale, sei ancora in ritardo! Le lezioni iniziano tra cinque minuti!»
«Ciò significa che sono puntuale.»
L’amico gli si avvicinò sorridendo e gli diede una lieve pacca sulla schiena. «Dovresti svegliarti prima, invece. Si viene qua e si chiacchiera con gli altri...»
«Una volta finite le lezioni ci rimane tutto il tempo di cui ab-biamo bisogno per parlare e fare casino, non credi?»
S’incamminarono senza ulteriori commenti, percorrendo a grandi passi il sentiero che attraversava il grande giardino esterno di fronte all’edificio dell’Accademia.
Attorno a loro fiorivano i gigli, le viole e gli alberi di pesche; e sul prato tagliato con tanta dedizione, erano spuntate decine di piccole margherite.
«Pensi che il maestro Marfire si arrabbierà se entriamo in ritardo?» chiese Jale.
Droverson Marfire era il maestro addetto all’insegnamento della meditazione agli allievi più giovani.
I ragazzi imparavano ad estraniarsi dal mondo intero fino ad arrivare a sentire i passi di una formica sul terriccio. Una volta raggiunto questo obiettivo, potevano accedere al livello successivo che consisteva nell’apprendere tutti i metodi di sopravvivenza esistenti nell’Arcipelago Occidentale.
Nel campo della meditazione Marfire era impareggiabile. Nessuno era meglio di lui in tutta l’Eretia, l’insieme di isole a nord dell’Arcipelago.
«Temo di sì.» rispose Alar.
L’accademia dei Saggi era stata costruita a Leeiv per uno scopo ben preciso: tenere lontano gli studenti dagli affari interni delle isole maggiori.
L’aristocrazia locale aveva un controllo fortissimo sulle principali isole dell’Eretia; imponeva leggi e tasse a volte molto elevate, e la giustizia era solo un nome senza significato.
A Leeiv, invece, si poteva disporre di tutta la tranquillità e della serenità necessarie al perseguimento degli obiettivi proposti dall’Accademia, scuola della quale Marfire era responsabile.
La meditazione era un arte: non erano molti gli allievi che al termine di ogni anno riuscivano a raggiungere un alto grado di concentrazione.
I due ragazzi entrarono e salirono subito una breve scalinata bianca che conduceva al secondo piano. Al pianterreno infatti si trovava la sala delle assemblee, dove il corpo insegnanti si riuniva per prendere le decisioni più importanti che riguardavano l’intera comunità, come il termine dell’apprendistato di un singolo studente, o l’invio di un ambasciatore nelle isole maggiori.
Negli ultimi tempi si erano avute molte sommosse popolari a Wethrim, la capitale dell’ Eretia: il nuovo re sembrava essersi guadagnato il trono con menzogne e inganni, usando la corruzione sui funzionari di corte.
Una volta usciti dall’Accademia, gli allievi sarebbero tornati alle loro case, lontane miglia e miglia da Leeiv.
L’Eretia non era che una piccola parte dell’Arcipelago Occidentale, il più grande insieme di isole conosciuto dalle persone che abitavano fino centomila miglia di distanza.
In quel mondo c’erano altre terre, altri mari e altre isole, ma erano così lontani che i cittadini dell’Eretia non si sognavano nemmeno di tentare un viaggio così lungo e incerto. Era un mondo troppo infinito e troppo vario perché la mente dei suoi abitanti potesse riempire quel vuoto legato all’estensione di ogni terra che, per l’appunto, terminava in un’altra terra e così via.
Jale e Alar si fermarono al secondo piano e attraversarono spediti l’altro giardino esterno dell’Accademia, giungendo così nella sezione che comprendeva tutte le aule di insegnamento dell’edificio.
Marfire Droverson li aspettava fuori dalla loro classe, l’espressione corrucciata e lo sguardo stufo. Aveva la barba appena accennata, era ben pettinato e vestiva in modo più completo ed elegante rispetto ai due ragazzi. Portava una maglia scura senza maniche e pantaloni neri leggermente rovinati per le tante volte che erano stati usati. I capelli erano di un grigio striato di bianco, gli occhi terribili e freddi erano a metà fra un azzurro chiarissimo e un grigio altrettanto chiaro.
«Jale Arroway e Alar Shieldheart, è la quinta volta consecutiva che siete in ritardo!» sbottò. «E siete sempre insieme! Fate a gara per vedere chi entra ultimo in aula?»
«Signore non siamo in ritardo, l’ora è giusta...» iniziò Alar.
Marfire aggrottò ulteriormente la fronte. «No, non è giusta. Alle otto dovete essere in classe perché iniziano le lezioni, ma a scuola dovete venirci come minimo dieci minuti prima»
«Signor Marfire» intervenne Jale spostando di lato l’amico «Abbiamo sbagliato e ci scusiamo. Faremo in modo che non riaccada, vero Al?»
Alar annuì vigorosamente e gettò una rapida occhiata dentro alla classe.
«Ho come l’impressione che invece succederà ancora. Adesso andate a sedervi ai vostri posti e non azzardatevi a parlare a meno che io non vi porga delle domande»
«Sissignore!» risposero in coro i due ragazzi, tirando un sospiro di sollievo.
Dentro alla classe c’erano altri dieci ragazzi, la testa già china sui libri. Solo due o tre gettarono uno sguardo ai due nuovi arrivati: evidentemente il ritardo di Jale e Alar non era un fatto nuovo.
Marfire avvicinò la sua sedia alla scrivania e si sedette. «Oggi» disse «Utilizzeremo la meditazione in un modo del tutto differente da quello che avete conosciuto finora»
Bidde Vhan, un ragazzo grassoccio seduto dietro ad Alar, si sporse verso quest’ultimo e gli sussurrò nell’orecchio: «Fico! Cosa credi che ci farà fare?»
«Bid caro, forse ci insegnerà a dimagrire con la forza del pensiero» rispose Alar muovendo impercettibilmente le labbra.
Bidde sbuffò e tornò seduto in ansiosa attesa della nuova lezione di Marfire.
«Shieldheart» disse il maestro guardando Alar.
«Signore?»
«Ti avevo detto di non parlare»
«Ma infatti non ho parlat...»
Non fece in tempo a finire la frase che una bacchetta di legno volò nella sua direzione. Alar la schivò all’ultimo secondo.
«Non sono l’insegnate di meditazione per niente» disse Marfire «Dal mio punto di vista hai parlato così forte che se ci fosse stato silenzio assoluto mi avresti fatto male ai timpani»
Sul volto di Jale si dipinse un sorrisetto punzecchiante.
Alar lo vide e si passò un dito sulla gola, intimandolo al silenzio.
«Avete già una vaga idea di cosa faremo quest’oggi?» riprese Marfire squadrandoli uno ad uno «Mai sentito parlare di “negazione della meditazione”?»
Un unico no uscì all’unisono da dodici bocche.
«Lo immaginavo, è la prima volta che la insegno»
Jale chiese: «Perché?»
Marfire aggrottò la fronte «Arroway, hai parlato?»
Il ragazzo scosse la testa e alzò la mano.
«Sì?» chiese Marfire con aria indifferente.
«Signore» disse Jale «Desideravo sapere come mai è la prima volta nella sua vita che insegna questa... cosa»
«Non ora, Jale Arroway, non è ancora il momento. Per oggi vi dovrà bastare sapere che è molto importante, in particolare per il vostro futuro. Nient’altro» fece una breve pausa «Siete pronti? Posso iniziare con la spiegazione?»
Nessuno rispose con tanta convinzione.
«Bene» iniziò Marfire con voce più tranquilla di prima «La negazione della meditazione non è altro che una meditazione “disturbata”. Solitamente, quando meditiamo, pensiamo a tante cose, esploriamo il nostro io più profondo ponendoci mille domande. Cosa pensate che potrebbe succedere se tutte queste considerazioni le facessimo ad alta voce?»
Un silenzio irreale scese sull’aula.
“In effetti non ci ho mai fatto caso”, pensò Jale “Si verrebbe a creare un caos totale... dove vuole andare a parare Marfire?”.
Droverson non impiegò molto a fornire la risposta al posto dei suoi allievi «La concentrazione richiesta sarebbe dieci volte maggiore» disse «Credete che sia facile meditare con altre undici voci che parlano di tutto ciò che sentono?»
«Ma è impossibile!» esclamò un ragazzo di nome Eriksson. «E’ inattuabile una meditazione in una situazione del genere!»
Questa volta Marfire non si arrabbiò per l’intervento non richiesto. «Infatti» rispose «Proprio per questo motivo si chiama “negazione della meditazione”: perché in pratica è impossibile da realizzarsi. Lo è solo in teoria, e questo ci deve bastare»
Marfire si alzò e raccolse la sua sacca coi libri e gli appunti, poi si rivolse nuovamente alla classe «Andiamo, vi porto alla spiaggia»
La classe rimase ammutolita: la spiaggia era uno dei luoghi meno indicati per praticare la meditazione, a causa della presenza dei gabbiani e del porto di Leeiv a poche centinaia di metri di distanza. Inoltre le onde che si frangevano sul bagnasciuga erano un elemento decisamente negativo per chiunque volesse estraniarsi completamente dal mondo.
Il fatto che Marfire avesse deciso di condurli lì, lasciava presagire solo il peggio; ovvero che ci fosse sotto qualcosa di grosso. Di veramente grosso.
«Al!» Jale si rivolse all’amico non appena furono fuori dall’aula, diretti all’esterno dell’Accademia.
«Dimmi tutto» rispose Alar scostandosi una ciocca di capelli ribelli dall’occhio sinistro.
«Marfire ci sta per insegnare una cosa impossibile... significa che qualcosa sta succedendo, a Wethrim o ancora più lontano. A sud od oltre l’oceano ad ovest»
«Io ho sentito qualcosa!» intervenne Bidde «Mio padre è tornato alcune settimane fa da Sye, a nord di Wethrim, e mi ha raccontato di aver udito alcune storie inquietanti nelle locande»
Alar si finse interessato «Ma davvero? E cosa ti ha detto?»
Bidde si avvicinò al ragazzo e gli sussurrò all’orecchio. Jale si accostò per sentire. «La terra è malata. Mio padre ha sentito queste voci da certi vagabondi che vengono da molto lontano, e che a loro volta le hanno sentite da altri viaggiatori provenienti dalle terre dell’estremo sud. Sembra che lì la terra si stia rinsecchendo e che il terreno non sia più fertile come lo è sempre stato»
Marfire gettò loro un’occhiata eloquente mentre varcavano l’ingresso dell’Accademia.
«Hey Bid» disse Jale abbassando ulteriormente la voce «Ha sentito qualcos’altro tuo padre?»
Bidde scosse la testa.
«Non dirmi che gli credi!» esclamò Alar. «Il nostro mondo esiste dall’alba dei tempi, e fino a che ne abbiamo memoria non si è mai ammalato!»
«Tutto è possibile, Al. Ricordati dove ci sta portando Marfire»
Accortosi che qualcuno aveva pronunciato il suo nome, Droverson si voltò nuovamente con occhi di fuoco.
«Ba-sta» disse, sillabando accuratamente le parole.
Nessuno osò fiatare fino all’arrivo in spiaggia.
Il cielo risplendeva dello stesso blu con il quale era iniziata la giornata, la temperatura era piacevole, non troppo calda e non troppo fredda. Una fresca e leggera brezza marittima soffiava da sud, facendo vibrare i rami degli alberi come piccoli fantasmi alla luce del giorno.
La strada che conduceva alla spiaggia era tutta in piano e si inoltrava in un fresco boschetto di betulle, dove solitamente i ragazzi praticavano la meditazione.
Il mare si presentò ai dodici ragazzi come una finestra verdeblu sull’immensità di quell’infinito specchio d’acqua che noi chiamiamo con un nome semplice e profondo.
Un gabbiano stava volando sul filo sottile dell’acqua calma e placida. Si alzò in volo di qualche metro, poi ripiombò sulla sua immagine e ne emerse con un pesce che ancora si dibatteva stretto nel becco.
Per giungere alla spiaggia dovevano scendere una ripida scalinata di legno che per gli alunni di Marfire esisteva sin da quando erano nati; eppure a sentire i loro genitori, era lì da molto tempo prima.
«State attenti.» disse Marfire.
I giovani studenti scesero a passo lento, fermo e sicuro. La maggior parte di loro aveva già percorso quella strada decine di volte, e la scala non rappresentava un grande problema.
Finalmente furono in fondo, e la grande distesa azzurra si rivelò in tutta la sua bellezza ai loro occhi di adolescenti.
Il porto di Leeiv si stagliava sull’orizzonte, in direzione est. Il tratto di mare tutt’intorno a loro era attraversato da innumerevoli barche a vele e pescherecci. Questa era la grande ricchezza dell’Arcipelago Occidentale: la pesca comprendeva gran parte delle risorse di cibo di Leeiv.
Era stata un’annata particolarmente redditizia, anche contando che d’inverno la temperatura di Leeiv non calava mai oltre i dieci gradi. Anche se era la città più a nord dell’Arcipelago, era bel lontana dalle zone fredde e gelide del nord e ancora più avanti, fin dove la mente poteva arrivare.
«Sedetevi» ordinò secco Marfire «Gambe incrociate e schiena ritta!»
I dodici ragazzi obbedirono, e appoggiarono le mani sulle ginocchia, chi dalla parte del dorso, chi da quella del palmo.
«Cominciate a meditare come avete sempre fatto» continuò il maestro sedendosi a sua volta ma senza assumere particolari posizioni «Vi dirò io quando dovrete iniziare a parlare. Per il momento concentratevi solo sul vostro respiro»
Jale ci provò con tutto sé stesso.
Tornò con la mente all’infanzia, ai suoi genitori, a suo fratello Nerisnys che giocava insieme a lui, ora in viaggio per ritornare a Leeiv dopo essere stato sei mesi a Wethrim.
Pensò a sua nonna, a quella vecchietta raggrinzita che aveva sempre avuto una forza incredibile per aiutare in casa e per raccontare a lui e a Nerisnys incredibili storie di un’altra epoca, di un’altra terra.
E, come previsto, tutto questo lo calmò.
Fu allora che arrivò il segnale, inaspettato.
Quasi non sentì Marfire esclamare: «Ora! », che il caos cominciò.
Dodici voci si misero a parlare all’unisono, con se stesse e con i fantasmi del loro passato. Jale si teneva disperatamente aggrappato ai suoi ricordi, cercando di ripetersi in continuazione che i suoi erano più importanti di quelli degli altri, e che perciò non doveva assolutamente cedere.
Sentì che la sua anima si riempiva di voci altrui, di immagini che non gli appartenevano. Allora rafforzò la propria concentrazione e alzò inconsapevolmente la voce.
Radunò a sé tutte quei roghi del passato che erano i ricordi e attaccò le fiamme degli altri, sconfiggendole. Fece luce nel presente e rimase solo lui, insieme alla malinconia del suo tempo già trascorso.
Gli altri ragazzi continuavano a parlare, ma Jale non li sentiva: era completamente immerso nell’esplorazione del suo essere più interno, tanto da aver perso concezione di tutto e di tutti.
In futuro non seppe dire per quanto tempo rimase in quella condizione, senza più sentirsi vivo, ma nemmeno morto. Jale era divenuto qualcosa che non esisteva ma allo stesso tempo era lì, nel mondo.
Gli sembrarono trascorse vite intere quando delle mani forti e strette lo scossero per le spalle.
«Su, avanti Jale, svegliati. Non vorrai farci aspettare domani per tornare all’Accademia»
Il ragazzo aprì a fatica gli occhi e fu accecato dalla luce del sole di mezzogiorno. Marfire era chino su di lui, gli occhi grigi che lo fissavano impassibile.
«Ti sei spinto un po’ troppo oltre» disse.
Jale si accorse di essere disteso sulla sabbia, così accettò la mano che Marfire gli porgeva e tornò seduto, le braccia che circondavano le ginocchia.
«Cos’è successo?» chiese.
Droverson aggrottò le sopracciglia. «Dovresti essere tu a dirmelo»
«Non lo so» ammise Jale.
«Tieni» disse Marfire porgendogli del cioccolato.
«Grazie» gettando lo sguardo intorno, il ragazzo si accorse che tutti lo guardavano incuriositi, Alar compreso.
«Credo di essermi concentrato eccessivamente» disse infine «In qualche modo sono riuscito ad escludere tutte le altre voci dalla mia testa, ma ho perso completamente coscienza di me stesso»
Marfire stette in silenzio osservandolo a lungo, lo sguardo perso in pensieri lontani e irraggiungibili.
Poi si riscosse «Va bene, torniamo in Accademia, è quasi ora che vi rechiate a casa. La settimana finisce oggi, non ve ne sarete mica dimenticati, vero?»
Si alzò e aiutò Jale ad alzarsi a sua volta, poi si incamminarono tutti verso l’Accademia.
«Amico mio, stai bene?» Alar si preoccupò subito per la salute di Jale.
Questi gli rivolse un sorriso tirato «Abbastanza» rispose «Ora torniamo a casa, e ricordati di salutarmi tua sorella.»
Alar rise e Jale con lui.
«Lo farò» rispose il biondino «Stai pur certo che lo farò.»


PARTE PRIMA
L’ANIMA


ALEXANDRIA
132 anni dopo la caduta dell’Impero del sud

La città era un inferno. Le case erano fiamme di morte alte decine di metri. Il cielo era divenuto grigio, il fumo oscurava tutto.
Per strada si sentivano i lamenti dei moribondi e la terribile puzza delle persone bruciate vive, ora ridotte a cadaveri scomposti, riversi a faccia in giù nelle pose più oscene e inimmaginabili.
Alcuni urlavano, altri provavano a scappare, ma quasi tutti finivano nella morsa fatale del fuoco, che li divorava senza pietà.
Un fanciullo fissava terrorizzato quell’apocalisse dalla finestra della sua casa, proprio nel momento in cui le fiamme iniziavano ad attaccarne le fondamenta.
Una bambina, sui quattro anni, gli stava attaccata alle gambe con gli occhi pieni di lacrime. Non singhiozzava, non strillava, sembrava quasi che non avesse paura.
Il fanciullo sembrò riscuotersi improvvisamente e smise di guardare le persone che morivano come mosche sotto di lui.
«Vienis, aurea!» gridò alla bambina, poi la prese in braccio e si mise a correre verso le scale, nella speranza di riuscire ancora a fuggire.
Quando l’incendio era cominciato, il fanciullo non si era accorto di niente. Nel momento in cui l’odore del fumo aveva raggiunto la sua casa, aveva guardato fuori dalla finestra e non era riuscito più a staccare gli occhi da quell’orribile spettacolo.
Adesso lo premeva la paura di non riuscire a salvare la sorellina. I loro genitori erano in città quando tutto era iniziato, e lui era certo che fossero morti. Stare lì ad aspettarli avrebbe solamente ucciso anche lui.
Scese due rampe di scale solo per essere fermato da una vampata di fuoco che saliva dal basso, sbarrandogli la strada.
Il panico strinse la presa intorno al cervello, impedendogli di ragionare con lucidità.
Risalì le scale e tornò nella sua stanza. Appoggiò la bambina sul pavimento, e subito lei corse verso di lui, aggrappandosi con forza disperata alle sue gambe.
«Te manen istant!»
Con dolcezza staccò le morbide mani della bambina dai suoi pantaloni, poi aprì completamente la finestra. Guardò fuori.
Le case erano addossate una all’altra e i tetti spioventi si alternavano alti e bassi.
Subito si rese conto che ciò che pensava di fare era pura e semplice follia con scarse possibilità di successo.
Il fanciullo prese per mano la bambina e la condusse vicino alla finestra. La lasciò in quella posizione dicendole di non muoversi e scavalcò l’ apertura.
Con un leggero salto atterrò sul tetto della casa a fianco. Si aggrappò subito al cornicione della finestra sopra di lui, dalla quale la sorellina lo guardava spaventata senza emettere alcun suono.
Una volta certo di avere il controllo dell’equilibrio, il fanciullo fece due passi in salita, arrivando all’altezza del viso della bambina.
Le allungò le braccia, esortandola a sporgersi per poterla prendere in braccio.
Lei, riluttante, si arrampicò sul cornicione incerta delle sue fragili gambe, poi si gettò tra le braccia del fratello. Il fanciullo la strinse forte e le diede un affettuoso bacio sulla fronte. «Eo te selvo, non pianges!»
Il fanciullo avanzò lentamente sul tetto, diretto a quello successivo, di poco più alto.
Il fumo stava iniziando ad assediarli da tutti i lati, senza lasciare vie di scampo. In lontananza il palazzo reale aveva anch’esso preso fuoco di colpo, senza motivo, come il resto della città.
Un acutissimo grido di dolore riecheggiò nell’aria, e la bambina affondò le unghie nella schiena del fratello, graffiandolo.
Al fanciullo sfuggirono delle lacrime, ma egli non si fermò. Raggiunto il tetto successivo, vi fece sedere la bambina, e dopo salì lui. Dovevano raggiungere la torre cittadina se volevano salvarsi: le strade erano l’inferno assoluto, tutto bruciava e niente rimaneva in piedi.
Gli schianti delle case che crollavano gli mettevano fretta. Le urla delle persone che morivano arse vive lo riempivano di puro terrore. Il fanciullo guardò giù: si trovavano a circa trenta metri di altezza, e il prossimo tetto distava un metro scarso da dove si trovavano adesso.
Non era un salto così difficile, ma egli temeva di non potercela fare con la bambina in braccio. Eppure ce la doveva fare. Ben presto le fiamme si sarebbero fatte strada fino ai tetti e loro avrebbero fatto la fine di tutti gli altri.
Chiuse gli occhi e calmò il respiro, poi li riaprì e saltò. Atterrò senza problemi dall’altra parte, così non perse tempo. Avanzò ancora e raggiunse un altro tetto, questa volta più alto. Alcune tegole scivolavano di sotto spinte dai suoi piedi, ma lui cercava di non curarsene.
La torre cittadina si alzava maestosa davanti a loro, lontana qualche centinaio di metri. Il fanciullo provò ad aumentare l’andatura, ma il peso della bambina glielo impediva.
Respirando affannosamente si trascinò fino al prossimo tetto. Le gambe iniziarono a fargli male seriamente, e minacciavano di non sorreggerlo più.
Un muro crollò all’improvviso sotto di loro con uno schianto assordate. Il fanciullo rischiò di scivolare e solo all’ultimo secondo passò all’ennesimo tetto, di mezzo metro più alto.
A questo punto si sedette sfinito, senza allentare la presa delle sue mani sul corpo della bambina. La torre era ora più vicina, ma per arrivarci avrebbero dovuto percorrere una ventina di metri a piedi, in strada. Nel fuoco.
Nuove lacrime gli caddero lungo il viso al pensiero di ciò che da lì a poco avrebbe fatto. Lui sarebbe morto, ma almeno sua sorella si sarebbe salvata. Il suo sacrificio le avrebbe permesso di scappare da quell’inferno e crescere tranquilla, fino al momento in cui si sarebbe fatta una sua vita.
Scelse una casa dove il fuoco non era ancora arrivato o quasi, e si diresse verso il suo tetto. Una volta lì fece scivolare alcune tegole aprendo un varco abbastanza grande per farlo passare. Guardando dentro notò che il pavimento non era troppo lontano, e che saltando dentro al buco che aveva aperto, sarebbe caduto senza farsi troppo male. Strinse forte a sé la bambina e saltò.
Cadde a schiena in giù avvertendo una fitta lacerante di dolore, ma con sua grande felicità constatò che sua sorella, riversa a pancia in giù sopra di lui, non si era fatta niente.
Si rialzò in fretta, riprendendola subito in braccio. Scese le scale come una furia, con il cuore che gli batteva all’impazzata e il petto che minacciava di esplodergli.
Il fuoco raggiunse la casa proprio mentre lui attraversava veloce come il vento la porta d’ingresso. Senza fermarsi si mise la bambina sulle spalle, evitandole così il contatto con le fiamme.
In strada ogni cosa ardeva senza sosta, bruciava, poi veniva definitivamente ridotta in cenere.
Le scarpe del fanciullo si accesero quasi subito, strappandogli un acuto grido di dolore. La torre appariva ora più vicina.
Il fuoco si estese anche sulle sue gambe, rendendolo una macchina votata al salvataggio della piccola creatura che ancora teneva sulle spalle.
La pelle gli bruciò, il calore gli penetrò nella carne, provocando un terribile lezzo di bruciato intorno a lui.
Le fiamme si propagarono anche sul resto del suo corpo, fino alle braccia. La bambina urlò terrorizzata, ma il fanciullo, nell’ultimo straccio di coscienza, era deciso a non mollare la presa sulle sue gambe.
La porta della torre era spalancata, e senza più controllo di sé stesso, egli salì urlando le scale a chiocciola, il fuoco che lo incalzava da dietro, senza lasciargli un attimo di tregua.
Poi cedette. Non ce la fece più. Sentiva che era giunto il suo momento. Cadde lentamente, come una piuma, senza produrre alcun suono. Mentre la bambina, spaventata dal fuoco che persisteva sul corpo del fratello, piangeva senza muoversi di un passo, i superstiti in cima alla torre, udito l’urlo risuonare nella tromba delle scale, scesero di corsa e li trovarono.
 
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