Giuseppe Giunta: Dialoghi

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CAT_IMG Posted on 5/6/2012, 17:25




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Giuseppe Giunta è nato il 27 maggio 1960 a Barcellona Pozzo di Gotto (ME), ove risiede e svolge la professione di geometra. Ha partecipato a vari concorsi letterari ottenendo numerosi riconoscimenti, ed ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: “Il pensiero nella vita” – “Diario di un uomo semplice”, giugno 1980; “Il mio canto sincero”, agosto 1981; “I racconti della stanchezza”, novembre 1982; “Melodie e Incanti”, febbraio 2000. Sue poesie sono state pubblicate in diverse Antologie: “Pittura e poesia. Emozioni in armonia” a cura della Provincia regionale di Messina (Cultura, arte, sport e turismo); “Pagine di poesia” a cura dell’Associazione Teatro-Cultura “Beniamino Joppolo” di Patti, che nel luglio 1996 ha pubblicato nella collana dal titolo “Poeti alla ribalta” quattordici sue liriche, e su vari volumi del concorso “Poesia in Piazza”; sul volume “La poesia oggi…” a cura del Circolo culturale della Parrocchia “S. Pietro” con il patrocinio del Comune di Milazzo; su un volume dal titolo “Il… Massimo dei ricordo” (omaggio a Troisi) tra le migliori poesie del Premio Nazionale “Rosario Piccolo” (1990-1999); in un volume del Premio Letterario “N. Giordano Bruno” – XIII edizione anno 2003; nei “Quaderni del Convivio” a cura del Mo.Di.Cu. (Movimento per la Divulgazione Culturale), Barcellona P.G., dell’Accademia delle Arti e Messina Oggi (Associazione culturale); “Antologia 2006” a cura del prof. Giuseppe Stella – Edizioni SPES Milazzo, sull’Antologia poetica 2009 “On. Nino Pino Balotta” a cura dell’Accademia Musicale Artistica Culturale di Barcellona Pozzo di Gotto. Critico letterario per varie riviste. Gli è stato conferito negli anni 1999-2002, nel corso del Premio Nazionale di Poesia “Rosario Piccolo” il diploma di Poeta Benemerito. È stato presidente dell’Accademia Nazionale di Sicilia 2000 con sede a Patti (ME) nel biennio 2002-2004 e membro del Consiglio Direttivo, occupandosi del Settore storico-urbanistico. È stato nominato membro della Commissione Agricoltura e Calamità naturali presso il Collegio dei Geometri della Provincia di Messina. È stato nominato membro del Comitato Ristretto Cultura presso il Consiglio Nazionale Geometri di Roma nell’anno 2002. Svolge prestazioni didattiche in corsi di formazione professionale. Collabora con alcune riviste periodiche a diffusione interprovinciale curando rubriche d’interesse culturale, in particolare sulle discipline esoteriche ed antropologiche e sulla memoria storica della sua città.


Prefazione

di Carmelo Eduardo Maimone

Parlare dell’interiorità di coloro che ci assomigliano è impresa assai difficile poiché è come svelare, esporre se stessi al mondo esterno, mettendo a nudo la propria anima e il proprio sanguinante cuore come diceva Baudelaire.
Analizzando non un’immagine riflessa, ma la materializzazione della nostra essenza nello spazio esterno in altre sembianze, cogliendone appieno la sostanza prima che questa si sperda, liquefacendosi nel tutto che ci circonda a cui si fa un eterno ritorno essendo ciò da cui inopinabilmente, inconfutabilmente, inevitabilmente si proviene. S’afferma nel primo principio del Kybalion, ovvero il principio del mentalismo che il tutto dev’essere tutto ciò che realmente è, nulla può esistere all’infuori del tutto, altrimenti il tutto non sarebbe tale. E poiché esso trasmette il principio dell’ordinamento dell’infinito, se ne deduce che il tutto è mente vivente infinita, ciò che gli illuminati chiamano spirito! Ed ecco allora il concretizzarsi della condizione che esprime la nostra appartenenza al tutto che ci circonda, un infinito che ci contiene, ma che tuttavia noi stessi conteniamo; e poiché nulla si manifesta per noi al di fuori del cosciente, del sensibile, ne diviene che s’impone necessaria nella coscienza dello spirito, la ricerca attraverso la quale si manifesta l’armonia interiore così come affermato da Eraclito.
Lo sgorgare dello spirito, allora, partorirà il pensiero e nel pensiero sarà la dinamica della vita, il senso... altrimenti il tutto sarà stasi, morte!
Questa la saggezza della famosa frase scritta sul tempio dell’oracolo di Delfi, già intimo convincimento di Talete, padre della proposizione “tutto è uno” e successivamente divenuta il cardine della filosofia di Socrate “CONOSCI TE STESSO”. Questo il proponimento della filosofia ermetica dalla quale tutte le dottrine fondamentali - comprese negli insegnamenti di ogni popolo - non possono prescindere.
Uno scandagliare le profondità dell’Ego, dei modi dell’anima, il riversarsi del senso nel divenire.
Ma se questa la risultate del nostro ragionamento, come giustificare allora l’esistenza della barbarie? Ancora una volta accorre in nostro aiuto una frase del Kybalion, dove s’afferma: Le labbra della saggezza sono solo aperte alle orecchie della comprensione. È come dire che, seppur la verità risieda ovunque, seppur il senso sia compiente, tutto questo esiste in noi in forma latente concretizzandosi solo nella realtà di colui che è sveglio, colui che vede, si interroga, che cerca!
Dai primordi della sua esistenza, l’uomo, non si è limitato a soddisfare le esigenze materiali del proprio corpo, ma rivolgendosi al sovrannaturale ha disperatamente cercato di carpire da quel principio dell’ordinamento dell’infinito, il mistero dell’esistenza. Può una vita consumarsi nell’ordinario senza che non ci si ponga delle domande?
Non di rado non si arriva a delle risposte. Tuttavia è doverosa la ricerca, agognare alla conoscenza. Quella conoscenza che - come afferma il filosofo Salvatore Natoli - è sì fonte di dolore, ma alla quale - io dico - bisogna che si auspichi propensione nell’annullamento dell’alternativa Schopenhaueriana, ovvero la noia, interpretata come stasi, morte. Ed ecco così l’affermarsi degli spiriti più forti che, in lotta col dolore causato dalla visione del vero, non rifuggono la ricerca della conoscenza che trova il proprio punto di partenza da un necessario momento di introspezione. Ecco! Questo il senso e il contenuto del pensiero di Giuseppe Giunta, autore eclettico, complesso, poliedrico. Egli parla la lingua del mistero, enuncia i principi degli illuminati; sulle orme del suo maestro resta fedele alla sua dottrina in una visione della vita ad essa coerente, lui discepolo di Ermete Trismegisto. Eppure, quanta semplicità nelle sue parole, quanta luminosità interiore da esse traspare, stabilito che ci sono cose del nostro Ego che non sveliamo mai a nessuno, a volte... oserei dire... chiaramente neanche a noi stessi, - poiché un senso di pudore ci comanda e condiziona il comunicare, limitando il dialogo col mondo esterno, - stabilito ciò, come alienarsi dal bisogno di sentire d’essere, il desiderio di affermare la propria esistenza attraverso gesti, pensieri, dialoghi, che ci obbliga a volte a uscire dall’ombra. Accade così che attraverso i propri mezzi, la propria sensibilità, vinta la timidezza, schiuso il coperchio, i gioielli della nostra anima splendano alla luce improvvisa che inaspettatamente li investe.
Una luce... come cuneo lucente, ecco cosa penetra la nostra mente. Ci sono, infatti, momenti della nostra esistenza in cui dimensione arcana accoglie il nostro pensiero, la nostra essenza e il senso si compie e dalla sorgente sgorgherà il verbo della vita... la verità!
Quanto premesso oserebbe penetrare e descrivere il pensiero e l’opera del poeta Giuseppe Giunta. Vi è tuttavia in lui un lato oscuro, un quid che lo rende impenetrabile e al tempo stesso vicino alla interpretazione del libero arbitrio di ognuno di noi. Come resistere, allora, al richiamo della sua sostanza, a ciò che questa ci sommuoverà dentro?
Orbene… cavalchiamo la tigre “come direbbe Evola” e caliamoci dentro l’opera che in un ennesimo gesto di ponderata compiutezza, l’artista ci porge.
Il corpo del trattato si genera dalla sintesi di quattro momenti in cui sembrerebbe trasparire il culmine della sua maturità che come le acque del fiume giunte alla foce, nel punto in cui si confluisce nel tutto per liquefarsi, nell’atto dello sperdersi nel nulla infinito, s’alimentano apparentemente dal concludersi delle suddette fasi.
Improvvisi si manifestano, tuttavia, attimi di indomabile voglia di incedere e andare oltre per le vie perigliose e ancora incomprese del creato.
L’inconscio ci porge, attraverso il sogno, frammenti di verità sopite nella nostra essenza, così come la poesia risveglia il brivido di sensazioni arcane che il tempo spesso relega nel dimenticatoio della quiete dell’indifferenza. È forse questo un modo per proteggersi dai mali della vita, dai dolori che a fior di pelle tormentano il nostro intimo? Ma come sottrarsi ad essi, come rinunciare ai sensi?
Bisogna osare, staccarsi dal convenzionale, cercare di interpretare il verbo Rosa-Crociano secondo cui i normali, gli equilibrati, i moderati non creano niente, per spingere gli uomini bisogna avere la volontà, la potenza di vedere il mondo diverso da quello che è… come dovrebbe essere…Un gesto di volontà di potenza di nietzcheana memoria insomma.
Nell’insieme, i “Dialoghi” si aprono con un prologo al quale l’Autore non ha potuto rinunciare vista la prorompente esigenza di snudare al limite estremo la propria interiorità, affinché siano chiari al lettore i tormentati moti dell’anima da cui scaturiscono… un nuovo secchio d’acqua fredda m’inebria il groppone… son tornato ad intonare il canto dell’uomo libero dai pregiudizi ed invoco il Dio Infinito… son tornato con voce furente… Un rinnovato vigore che risorge e consuma il suo vivere, paragonato dallo stesso come il pasto fugace del giovane soldato in trincea.
La prima parte si materializza negli aforismi. In essi il linguaggio sembra oscuro, tuttavia è proprio all’opposto che tende l’intento dell’Autore, ovvero fornire una chiave di lettura alle alterne vicende che scandiscono il nostro vivere e per far questo egli sembra ripercorrere coerentemente il principio della profezia di Celestino, ovvero l’esortazione a Non guardare con gli occhi della mente, ma con quelli dell’anima poiché la vita che verrà è già davanti a noi in attesa di svelarci la natura del mondo, guarda con attenzione, trova gli occhi per vedere.
La saggezza dei rotoli della profezia di Celestino è sicuramente assimilata da Giuseppe Giunta e scorre tra le righe dei suoi fissati pensieri. Tuttavia la sua natura poliedrica, la cosmogonia della sua anima, lo portano ad approdi lontani. Così anche il pensiero orientale affascina e permea la natura dell’Autore. Come non poggiare l’attenzione al richiamo del ciclo karmico? Sue sono, infatti, le parole: Gradirei che l’iridescenza di ogni ciclo karmico fosse il minuscolo nerbo della vita che graffiato l’indumento… mi grattasse il fianco per destarmi dal dormiveglia…In un atto di presa di coscienza del reale, il poeta pone il netto rifiuto all’ordinarietà del dormiente, esponendosi al dolore che causano gli eventi, ma con lo scopo di restare artefice di quella vita così attentamente scandagliata e interpretata. E in questo si trova in piena sintonia con quanto affermato da Bhagvan Shree Rajneesh: noi siamo gli architetti della nostra vita così come siamo totalmente responsabili di qualsiasi cosa ci capiti nella vita. Sono perle di saggezza di cui il poeta è evidentemente un attento estimatore. Come eludere, infatti, il messaggio lanciato nel riferimento al ciclo karmico? Enuncia, infatti, uno dei principi, “TU DIVENTI CIO’ CHE PENSI”; per cui si può dire che tutto il pensiero che si materializza in azione è ciclo karmico, quindi la vita non è altro che un susseguirsi di cicli karmici, durante i quali si prosegue alla scoperta del proprio Ego in un viaggio introspettivo che non manca di arricchire il poeta della esperienza di un vissuto che tuttavia lo lascia come a suo dire con le ossa indolenzite. Ma è pur vero che quando un vuoto si colma, altro ancora si riverserà ovunque ci sia predisposizione a ricevere. Allora quale presagio dalle parole del poeta? Io ho colmato il cielo con la mia anima appena munta è segno di un inizio, l’azione si rinnova nella azione che finendo appena coglie il gesto della ripetizione, come la sorgente che appena ha saziato l’arsa terra vuole, deve ancora sgorgare.
Con imprudenza, egli afferma bevvi nello stagno l’acqua sgorgata dalle pendice del monte. È vero, la conoscenza dopo aver percorso l’impervia via dell’esperienza, viene a confluire nel tutto, nella calma piatta dello stagno, dove sedimenta e come seme, in attesa di germogliare nell’interiorità del viandante che testardamente cerca ristoro, conduce al vero.
A concludere la prima parte una miscellanea di pensieri e a volte – sì, perché non ammetterlo? - di fragilità, di dubbi che attraversano la mente dell’Autore, dal gusto Cattafiano, emergono Nella voliera e ancora Nostrani pària. Attento e forse paradossalmente nostalgico appare il riferimento al tempo andato nel componimento A manu manca, il ricordo di stati di povertà sociale, la visione della sofferenza che si patisce per ciò che manca, la sopravvivenza che si manifesta in un pasto frugale consumato di nascosto… Tutti temi che chiaramente ripercorrono la via del dolore, ma che parimenti si proiettano nella rinascita di chi queste cose adesso le vive nel ricordo, un ricordo che genera comunque un nostalgico languore… Si rintuzza accorciandosi nella manica scompare in essa mutandosi in un cozzu di pani con sale e pomodori umidi di olio mangiato di nascosto e quando si poteva…
Questa parte si chiude così, con l’esortazione non basta soltanto vivere, c’è bisogno di vivere meglio di come vive l’uomo comune.
Il poeta non manca di ricercare il giusto punto di contatto col mondo a lui esterno, al quale paradossalmente chiede un gesto di aiuto per colmare attraverso il dialogo le distanze che separano dalla comprensione, dalla libertà.
La seconda parte si compone delle Risposte brevi. In essa i componimenti sembrano riprendere i motivi di una poetica legata, ora, all’analisi dei mali presenti nella nostra società.
Sull’estremo, un pensiero poggia sui bimbi mai nati nella poesia La morte bianca; ora invece alla ricerca di una risposta attraverso la metafora fra la secolarità dell’ulivo e la quotidianità del grano: affidarsi al futuro o consumarsi nel presente? Nella fossa depone il raccolto di una intera stagione… di una vita, aspettando che il suo maturare conosca il giusto senso. Questo è scritto ne Il silenzio e la speranza. E non manca di descrivere la stagione in cui L’ansia di conoscere scatenò l’insistente turpiloquio tra l’ultima spiegazione plausibile sulle sacre scritture e gli argomenti topografici dell’Uomo e del Santo vissuti entrambi tra le forme e le misure.
Insomma, un aleggiare fra incertezza e rimpianti, fra fragilità e determinazione, nel timore che tutto si compia prima ancora che egli abbia raggiunto il suo scopo, ovvero la comprensione dell’immenso di cui fa parte. Ma se questi i tempi introspettivi che caratterizzano la seconda parte, originale per la natura del poeta invece appare la necessità di aprire un dialogo con la propria città che palesemente prende corpo nella terza parte di Risposte brevi. Nascono, così, componimenti in cui il suo interesse si poggia sulla natura culturale che il suo territorio riesce ad esprimere; così il suo occhio declina sulla ricerca storica, un componimento è dedicato, ad esempio, alla Madonna che allatta del monastero di La Gala; in un altro momento di reminiscenza ripercorre l’avvento del Corpus Domini vissuto come un preludio festoso, momento mistico eppure ludico che apriva le porte alle vacanze scolastiche; ai ricordi appartiene anche quanto espresso nel componimento Oratorio Salesiano, in esso si percepisce la malinconia del presente che s’attarda su scene e persone ormai perdute per sempre, altri che già d’allora sono evaporati dai registri come li indica l’Autore. Non mancano, infine, riferimenti ai vecchi mestieri con La bottega dell’arrotino o al Villino Liberty come memoria storica, e dulcis in fundo al Parco Jalari, mirabile esempio di volontà e creatività umana. Concludendo quindi tutto questo, altro non manifesta che la volontà di stabilire un vero contatto con la propria terra e con le menti che la popolano il desiderio di identificarsi e d’essere identificato, un riconoscere… riconoscersi ed essere riconosciuto, l’uno nel tutto il tutto nell’uno.
La quarta e ultima parte del libro si compone dei Racconti surreali. Nel corpo dell’opera, la scelta della narrazione prende il posto dell’ispirazione poetica e quasi in forma prosastica ripercorre i temi cari al poeta come quelli dei luoghi, delle persone, degli eventi che affollano la sua memoria. Nascono così Poggio di Tindari, dove alla visione della figura di un caro Papa (Giovanni Paolo II) si mesce quella del giorno in cui congiunse la sua vita a quella della sua sposa; con Mietitura del grano tocca le corde dell’animo, offrendo la visione romantica di un mondo fatto di lavoro e fatica che ininterrotta si protrae a sera quando l’oscurità della notte porta riposo. È l’immagine di un mondo andato in cui si tolleravano i soprusi pur di sopravvivere, quando l’uomo accarezzava, comprendeva e rispettava la terra.
Da un’analisi di Palingenesi riemerge il concetto karmico, lo stesso infatti dice: Io smemorato percorro scivoli di pendii montagnosi, risalite incoronate da ginepri e mandorli amari… cartoline d’immagini impresse nei ricordi di trascorsi vissuti… potrei rendere ancora vivo quel senso amorevole di spandere ambrosia invece di cicuta, ma ogni mia volontà si spegne ignuda quando sul colle s’incava la canzone della vita e le pastose ghiandole della terra natia iniettano nettare nelle vene dell’uomo, RIGENERANDOLO”.
La scelta è quindi di andare avanti, oltre, sfidando la sorte verso l’inconosciuto, alla certezza così si sostituisce la fragilità, l’imponderabile, invero tutto purché nasca nel rinnovamento.
Con I misteri del Sacro, l’Autore ricalca i temi cari dell’esoterismo, così il linguaggio diviene ancora una volta ermetico e pregno di succo da stillare.
Per comprendere Giuseppe Giunta bisogna saper leggere fra le righe della sua intima esistenza. Egli non è il poeta delle rime o degli acquerelli, sovente scava nell’interiore e propende alla comprensione del mistero della gnosi e del creato di cui lo stesso è consapevole di essere parte, bisogna ammiccare insomma, al calice della conoscenza.
Questi ultimi scritti di Giuseppe Giunta sono come le foglie d’autunno che s’attardano a cadere, involandosi poi in un lungo distacco per poggiare infine a sedimentare nei luoghi della nostra anima che di emozioni si pasce, per tornare poi come in un ciclo karmico al tutto infinito nell’attesa di essere ancora assediata da quel tutto… dal niente!
Dat rosa mel apibus… un grazie sincero all’autore.



Se vi interessa questo libro, vi consiglio di consultare la scheda sul sito delle Edizioni Smasher (Clicca qui)
 
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