Premio ULTERIORA MIRARI - Mosaici - Fragmenta

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CAT_IMG Posted on 5/6/2012, 17:33




mosaiciweb

Autori: Cristina Bove, Doris Emilia Bragagnini, Martina Campi,
Gianluca Corbellini, Ivan Fassio, Valentina Gaglione,
Ermanno Guantini, Antonio Maggio, Sebastiano A. Patanè,
Fernando Della Posta, Roberto Ranieri, Silvia Rosa,
Meth Sembiase, Ada Gomez Serito, Tiziana Tius



Selezione testi

Ada Gomez Serito

era nero e mettevo garze sul viso,
erano lente processioni di addio,
la mia preghiera era barocca e la sabbia
era marmo rosso di Francia,
il mio ventre marciva,
il respiro martellava il muscolo del cuore
rimbalzando sugli organi con rumore acuto in contro fase,
il vuoto rantolava nel sottoscala,
la punta delle dita mi si apriva in ragadi
e la notte riceveva le grida di memorie impazzite


Cristina Bove

MI HANNO DETTO DI OFELIA

Voci di corridoio (locuzione scontata)
eppure dice
che l'oggetto ci sembra in dedicato
verbale
allora qui domando se qualcuno
l'ha vista nello scorrere del fiume
o dormire
o morire
o l'uncino di un albero di acacia
l'abbia trafitta in salvo

a me pareva
d'averla tra-lasciata
a tra-spirare in vasi di cantina

Nel dilemma
mi annebbio e mi dibatto
considerato che
se sono matto, se racimolo aut-aut
dalle rovine
di un castello di carte (Elsinore, sapete,
è un luogo scritto) niente di fatto
non sono più sicuro del mio nome
e dell'Ofelia
ho perso ogni contatto. Mi darete notizie?
Mi farete sapere se son morto?..

vostro
Amleto



Ermanno Guantini

[...]
sfioro il mondo con la forza di andare avanti. dovevo dirti che non avevo decenza per esplorare la luce della notte. ora siamo qui ora non siamo altrove. non puoi dire di no. non possiamo avere il coraggio di tornare indietro su queste forze sfrenate. farci ritornare al punto da cui avevamo avuto l'idea lasciarci partire. e penetrare ancora la freddezza. provo a trascrivere le cifre incerte. ci dilunghiamo sulla necessità della notte. ci sforziamo di mantenere il sorriso nella coscienza della corrente. non conosciamo altra strada che la confessione. per onde e stringhe. non abbiamo niente da dirci poi che le nostre facce. non posso dirti niente. non possiamo lasciarci altro che una mutua offerta di pudore. non importa la presunzione della morte. abbiamo perso la parte più mesta di noi. forse abbiamo sentito che non potevamo avere altro. e questo ci poteva anche bastare. non avevamo velocità per raggiungere l'odio migliore dei mercenari. avevamo lacrime per la pelle. e ci bastava il silenzio. il freddo ci punge fino a fare scomparire il rimorso. non avevamo voglia di risalire piano la corrente. non avevamo voglia di dare credito alle parabole. abbiamo scelto di andare avanti. e indietro. e far finta di andare avanti. di procrastinare ancora la concessione del fondale. forza sorridi al viatico. forza sorridi ai rimasugli del pane. forza sorridi. abbiamo deciso di modulare la sconfitta nei toni più freddi della decenza. nel pulviscolo appaiono anfratti sull'asfalto bagnato. odori, cretti in una spirale di perseveranza. dà un' odore ipnotico questa pioggia. odore ipnotico il baratro. e batte il fiume grigio senza fermare il corso delle attese. non possiamo dirci niente ora.
[...]



Ivan Fassio

Presente già passato
Se fosse destinato
Lo sarebbe al distaccato dalla sorte,
All’esiliato in ogni luogo
Della terra e della mente.

Libro canto spettacolo,
Questo gesto spezzato
Appena comprendiamo:
Che davvero non sia mai finita
Per chi è ferito a morte
Per chi è segnato a vita!

La tragedia a ripetizione
Di vivere in contraddizione
È categoria ampia, tetra,
Forse infinita, ognuno può rientrare.
Eppure fai un passo indietro
Mentre mi ascolti: di certo
Non risulti nell’elenco, non sei invitato,
A te, proprio a te,
Questo verso non è dedicato!



Roberto Ranieri

Coda (A capo)

La coda non rende giustizia
al tuo ricettario infinito
di regole, pia liquirizia
di forme che non ho capito
ma sciolgo fra labbra e palato
sfidando l’astuzia del nero
a estinguere il moto e lo stato
dal tu reo confesso del vero.
Amore, che a nullo tuo amato
rifiuti mai la prefazione
in calce, carteggio avariato
di bocche riaperte a tuo nome
e subito chiuse, nadir
e zenit d’ogni convenzione
di pappe, già dolce dormire
di maggio, bidet al cortisone...


Tiziana Tius

Se fosse che un cappello in testa
portasse fortuna ai pensieri
ne spargerei vagoni
sopra le teste che nuotano
in un mare di niente

*

Il volto mira al cuore
un solo palpito
a percorrere
l'arsura del labbro
che cede al tormento
delle parole

(A Paul Celan)


Silvia Rosa

Imperfetto modo indicativo d(ell)’essere [parola]

era il nostro segreto
linguaggio -non era niente-
era quella parola che mi hai insegnato
e non pronunciavo -disubbidiente-
poi una volta, che non ti ricordi, certo,
ho detto, tenendola in bocca
come una caramella un boccone che scotta,
in fretta (ma sembrava l e n t a m e n t e)

era quella parola che ti ho insegnato
non ti ricordi ora, ma un tempo
la ripetevi sempre -un codice- (di voglie)
era la tua parola (come) -un ordine-
il filo di lettere intorno a un baco
che moriva (un istante) indossando
ali di virgole, cambiando rauco il verso
dell'orizzonte e ancora e stanco

era il nostro segreto
linguaggio che hai (ab)usato
in una piazza nel vuoto di voci -altre-
dove chiunque che parla, parla il nostro linguaggio
che non era segreto, era qualunque
una lingua che reciti quando ti serve,
quando non sapevi che fartene
del silenzio perfetto della mia pelle

era la tua parola una puttana
di quelle così tristi e vecchie e sfatte
che t'innamorano di compassione
era la mia parola un'occasione
di trasformarla in madre in casa
in un Amore che non snudi di racconto,
non era che d'inchiostro lieve un apostrofo -per te-
la pausa -per me- che accoglieva il mio vo(l)to

era il tuo nome teso increspato in un soffio
che ricadeva a metà, al vertice
di quel nostro discorso (se mi arrendevo
al sapore più dolce della tua grammatica)
era il mio nome per intero che non dicevi
che qualche volta e pareva la prima
che fosse detto, come l'avessi inventato tu
per il gusto di possederlo -uno fra tanti, troppi-

era il nostro segreto linguaggio, era quella parola,
era il tuo nome era il mio, era la nostra storia
una trama qualsiasi, che non era neppure
qualsiasi una bugia -non era niente-
era la tua solitudine al culmine in un grumo d'assenze
era il mio pianto sottile di primavera una pioggia
vergine che si espone alla faccia del sole e
attraversa muta l'eclisse di ogni abbandono

è l'alfabeto con cui dirmi daccapo -sola-,
(ma) l i b e r a finalmente
[e se anche ti penso e ti voglio e ti cerco
e non ti penso e non ti voglio e non -è NO-]


Martina Campi

Un albero strangolatore impiega più di vent’anni
a prendere il posto dell’albero originario.
Nella foresta sacra si possono sentire le voci dei morti
e si può sentire il respiro degli alberi.
Era verde anche il cielo, e ogni lato da cui si proveniva.
Nelle stazioni di sosta si offrivano benvenuti
per pochi spiccioli. Altrimenti servono le ali,
per andarsene da qui servono le ali.
Non prendere niente. Non lasciare niente.
Abbiamo sentito l’abbraccio dei secoli sussurrarci all’orecchio
tutti i suoni del silenzio. Si camminava tra le radici
respirando corteccia, vestendo corteccia.

Poi il giorno scompariva dietro l’oceano
e veniva a prenderci la notte, e la notte
portava fuochi e portava carezze.
Veniva la notte a prenderci e la notte
portava la pace e portava altre luci.


Doris Emilia Bragagnini

sweet, sweet, my hungry sweet melody, sweet...

osserverò le piume alzate contro il vento che
il tuo gorgheggio solleverà nel vuoto intabarrato
e lì, a colpire dove il fianco è muto e
cola l’ombra - rovesciata -
sulla rotondità del giglio oscuro
reciderò gli stami
scivolando al fondo di quel ringhio d’altro canto
da serrare, tra le mie parole nude

erano i giorni delle unghie scheggiate
tra gli spazi tanto freddo e
il ruvidore precipitava l’ululo
a lisciarle sulla faccia ma, non era la paura
a stringere nei nastri l’andirivieni di quel fronte
che vedevo nei suoi occhi
piuttosto un velo, patinato su quel bianco
sopraggiunto come schiuma di

- distacco -



Meth Sambiase

Bell’imbriana

Avresti dovuto
mettermi nuda fra le tue gambe
e darmi di nuovo la vita.
Chiamare tutte le cose
con un nome nuovo
perché fossero le mie cose
le tue cose
le nostre cose.

Avresti dovuto chiederti
perché mi chiudevo negli armadi al buio
e azzittivo i rumori
e diventavo feto intrizzito
maledicendomi con un cerchio sulla testa.

Avresti dovuto
confortarmi, nutrirmi, cullarmi,
mettermi una coperta rosa fatta all'uncinetto
lasciarmi peccare nell'egoismo
attaccata all'oro bianco delle tue mammelle.

Avresti dovuto somigliarmi
farmi credere alla verità lucente del vetro
degli anni che mutano la forma della sembianza,
una nuova architettura
spirali di vertebre e capelli
pilastri gemelli, e gemelle viventi.

Io c'ero.
C'ero sempre stata.
Sciupata dalle ditate sulle spalle,
-povero piccolo insetto -
pestata, ammaccata, inquieta,
pluviometro di lacrime,
azzoppate e sommerse dalle adolescenze,
dalle poesie veloci come spine,

e alla fine del fondale,
uno zodiaco d'acqua
con dodici segni disuguali a chiamarmi orfana,
accatastata
da un sonno leggero e storpio
che m'induceva a svegliarmi
nelle notti che disavanzavano dal sogno
e tenerti vicino,
a guardarmi,
ombra proiettata di corpo madre,
madre mia.


Valentina Gaglione

Storia di versi 2 (Noi che ce la raccontiamo)

Raccontarsi una marcia in più
con un accendisigari tra le dita
darsi un tono da eremita
sfoltire gli anni alla richiesta,
tecnica fine di difesa
mista a speranza
puro inganno
Che possa ancora accadere?
Cosa?
Qualunque

Raccontarsi una marcia in più
diventa nascondiglio
di periodi infecondi e muti
istigazione a delinquere
per la forza del sorriso

Unghie di donne lungo le piante dei piedi
e tu non senti niente
Unghie di donna sull'anima di un principe
e tu piangi
Eri più forte da bambino
quando sparavi alle ombre
e i panni stesi erano giganti forti

Eppure ti muovi come caricatura
trovi il punto
in cui perdere o rubare soluzioni
per evadere nell'abbraccio di nuvole feconde.



Gianluca Corbellini

I tetti di Teheran

meglio tagliare i dubbi di traverso
e nel mezzo, il richiamo delle promesse
che si sciolgono fin da subito
come a perseverare la pioggia tra le mani
di chi afferra nodi sulla seta.
dopo tutto non solo per morire, scrivere
nelle striature della salsedine
senza lasciare tracce sulla pelle
mentre le vene scoppiano, di libertà
pagate al prezzo della luna
la mano tesa nel buco a cercare
un letto di chiodi, come verticale sui rimpianti
che a caderci sopra ti fottono le membra
ma è la testa a rimanere sverginata
troppe volte in quel corridoio buio
a cercare un appiglio, il ritratto di un muro
e il vinile che ricorda gli anni settanta
nei tetti di Teheran, dove si cadeva presto
e bisognava pagarsi pure le pallottole
non mi fido di te
di chi mi racconta solo del passato
perché il domani sembra muto
come un figlio bastardo, rinchiuso
senza neanche un letamaio per dormire
costretto a vederti nascere ogni anno
ed ogni anno a lasciarti andare.


Sebastiano A. Patanè

e queste mani che si estendono fino agli occhi

e queste mani che si estendono fino agli occhi
questo delirio di carne che insinui umido ai lati della lingua
non risolve l’alba e non decide l’ora delle fate
se solo un fenicottero nella pozzanghera
può fermare il tempo

comprendere le coincidenze
soffocherebbe certe mutevolezze
ma si appiattirebbero le dune lungo i vecchi confini
ah! si vedono ancora in basso, allegrezze senza curve
spie avariate di metafore secche nelle controparole

sopravvivere poesia per poi morire appena sillaba
nell’incompiuta mai cominciata mentre una sfacciata clivia
non nasconde la sua bellezza…


Fernando Della Posta

La carne

Ho sempre domandato al sensale
o al maestro di cerimonie,
una storia che arda come
due fiammelle in un solo fuoco
sotto i colpi del vento
e le folate calde di passione.

Nelle stanze chiuse, riempire il tempo
con gli aliti delle lingue rosse
e saturarla, l’aria,
dei suoni e dei pensieri
di chi dimentica il mondo
e lo ricrea
nelle efelidi innocenti
di chi è amato e ricambiato
seppur fugacemente.

Sugli spuntoni di un letto soffice,
sorridere e divertirsi
è il minimo concesso;
dimenticare gli affanni
desiderando l’attimo infinito
è l’egoismo dei sensi
sacrificato al patto
suggellato dall’affetto:
è condividere il bisogno
di annientarsi e di fuggire:
è il confessarsi schiavi
dell’inganno del piacere
che è del mondo
la linfa imperitura.


Antonio Maggio

[...]
Lunedì mattina. Lei è lì, col suo bagaglio di gioie e stanchezze, con quella giovane freschezza così fragile, così disarmante. Le otto. Come sempre, l’ora dell’incontro, ma chi la ha mai veramente incontrata? Lei giunge quando io arrivo, due treni diversi, due destinazioni opposte; una barriera di sogni ed emozioni che si interrompe per pochi minuti, il tempo di uno sguardo, di un impercettibile saluto, di un addio…
La stessa stazione, come ogni giorno, sporca e logora, stantia, stufa di accogliere sempre le solite persone, immagini di un passato e di un futuro già dimenticati. Le stesse movenze, gli stessi gesti, emblema di un’abitudine stanca e invincibile.
Poi c’è lei. Come tutti, stanca, pallida ma con dolcezza, triste eppure volitiva, diversa, nuova anche nel ripetersi, nell’occupare la sua sedia, nell’aprire il suo libro.
Le otto e due. Un fischio dalla stazione annuncia l’imminente partenza del “suo” treno. Ed ecco che mi guarda. Mi osserva per pochi ma intensi istanti, ed il mondo mi appare un po’ migliore. Poi il treno parte ed io rimango solo, in questa moltitudine indifferente, ma non mi lamento. Un nuovo fischio ha appena annunciato la partenza del “mio” treno verso una direzione opposta a quella dei sogni, verso la mia giornata.
[...]
Quello che un grande poeta francese mi ha trasmesso dal profondo del suo cuore, si è ora perso nei meandri della mia memoria. Lei non c’è. Per la prima volta da quando la conosco o meglio, da quando credo di conoscerla, non occupa il solito posto vicino al finestrino ad un passo da un altro treno, da un altro mondo, ad un passo da me. Cosa sarà successo? Avrà dei problemi a casa? Non posso credere che abbia marinato la scuola, non è il tipo! Credo di conoscerla bene. Lei è la prima della classe, la classica studentessa brava ma non arrogante che irradia bontà, la mattina si mette lì per offrirmi quel breve momento di beatitudine, non può averlo saltato apposta, non può farmi questo. Deve esserle accaduto qualcosa. Che sia ammalata? Chissà dove sarà ora: in un letto? In un ospedale? Speriamo solo che la giornata passi velocemente, domani il mio sole tornerà a splendere.
Venerdì mattina. Il sole non è ancora tornato. Per due interi giorni l’ho attesa: niente. “Lei” non c’è. Le mie giornate non sono più le stesse da quando è sparita, a scuola seguo le lezioni come un automa svolge il suo bravo compitino e la notte ho smesso di leggere; sul mio diario non ci sono più poesie ma due pagine vuote. Quante cose avrei voluto dirle, anche per una sola volta avrei voluto correrle incontro per toccarla, sfiorarla e proprio ora che sento di avere il coraggio, di infischiarmene della scuola, dei treni, delle direzioni opposte corro il rischio di non rivederla, se non nei miei sogni.

[...]



Se vi interessa questo libro, vi consiglio di consultare la scheda sul sito delle Edizioni Smasher (link).
 
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