Premio ULTERIORA MIRARI - Tripodi - Contatti

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CAT_IMG Posted on 5/6/2012, 17:35




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Autori: Sergio Pasquandrea, Parole agli assenti

Patrizia Dughero, Canto di sonno in tre tempi

Enea Roversi, Asfissia



Sergio Pasquandrea
Parole agli assenti
Siamo così abituati a pensare alle parole come portatrici di senso, e al senso stesso, a sua volta, come portatore di altro senso (e così via), che fatichiamo ad accettare l’idea che ci possa essere altro, e non solo nel suono, ma nel senso stesso. Peirce, nella sua teoria semiotica, individua la conclusione della fuga degli interpretanti nel momento in cui, nella prassi interpretativa, essi producono nell’interprete un’azione, o una disposizione all’azione. E quando ascoltiamo un brano musicale, a fianco di aspetti gravidi di senso, che chiedono di essere interpretati, ci sono aspetti che producono direttamente la nostra azione, e dei quali la nostra azione diretta è l’unico interpretante possibile – come sa bene ogni ballerino, o chiunque non riesca a tener fermo il piede che segue il ritmo. Ci sono aspetti ritmici, aspetti timbrici (ma anche melodici e armonici) che ci travolgono assai prima di qualunque comprensione ne possiamo avere. L’accordo del Tristano ci aggroviglia le budella ancora prima di essere in grado di dargli un senso, e il senso che siamo poi in grado di dargli dipende anche dal sobbalzo che ha prodotto in noi.
Se parlo di andamento musicale delle poesie di Pasquandrea non mi riferisco solo (e nemmeno principalmente) al suono delle sue parole, né tanto meno al fatto che qua e là si accenni al jazz. Quest’ultimo non è in sé che un indizio, la spia di un interesse e magari di un’abitudine di ascolto – la quale potrebbe (ma non è detto) trovarsi alla base di una competenza. La musica non è fatta solo di suoni, ma anche e soprattutto di andamenti ritmici e andamenti tensivi; e sono questi andamenti che io continuo a ritrovare nelle risoluzioni e negli enjambement di questi versi, nello sviluppo del senso e del discorso e nella sua interazione con la prosodia.
È come quando nel jazz (ma anche in Bach) la frase musicale accenna la presenza di un inquadramento ritmico, e poi ne oltrepassa il quadro, per spegnersi più in là, e magari riaccendersi per finalmente quadrare, magari ritornare in sintonia, e poi deviare di nuovo, mentre talvolta nel frattempo si è proposto un inquadramento differente, e via così. Il discorso si dipana a cavallo dei versi di queste poesie nel medesimo modo, senza che i versi cessino di essere versi, pur nella loro irregolarità.
Ed ecco che, impostate le cose in questo modo, le allitterazioni, le rime, i ritmi prosodici, l’incertezza del senso, l’allusione, l’inconclusività, si rivelano tutti altrettanti modi per trascinare il lettore, agendo o direttamente a monte del senso oppure quando se ne sia colta anche solo una parte, o nuovamente e ripetutamente a ciascun livello della comprensione e dell’interpretazione (dalla prefazione di Daniele Barbieri).


Su ciò che non è mai stato

Io lo so qual è l'inizio l'argomento
dove si inerpicavano le voci – tutte
tranne una che piegò la traiettoria
rasente al tuo profilo. La prossima
dovrò attenderla a lungo perché sveli
l'onda più scura sulla guancia il gioco
preciso delle clavicole e ancora
perché si incontrino a mezza strada il mio sangue
e l'odore del tuo seno. Ma lo so
lo so a bruciapelo – quanto è stato strano
fin dall'inizio saperti dire
le ultime parole.




Patrizia Dughero

Canto di sonno in tre tempi
Gli studi più recenti sulla cultura delle donne ci dicono che le rane, animali anfibi, che vivono vicino all’acqua, sono il simbolo di un femminile primordiale che si rinnova, legato alla terra. Sono forme che assume la Dea Madre, primigenia e potente, quella dea che nei luoghi natii di Patrizia Dughero, di origine friulana, tra le alte valli dell’Isonzo prende l’aspetto di creature favolose, come le Krivapete o appunto le rane. Anche la dedica “A Lia de’ Savorgnan, mia nonna”, ci mette sulla buona strada: si tratta di un cantare, quello di “Canto di sonno”, che mescola piano autobiografico e familiare al piano simbolico e storico-geografico, affidando alla parola poetica il compito di indagare, nella storia familiare e dei luoghi, il proprio presente. Così, nella prima parte del poemetto, “Le rane gracidano il canto”, la figura della donna che non ha parole per dirsi, poiché “nessuno ha guardato nella sua parte” e che “si priva del senso, ascolta / si muove in tracce lievi di memoria”, prova a decifrare il lento ed uguale canto delle rane, colme di un sapere che va compreso e sviluppato.
Nella seconda parte, “L’inganno dei colori”, sono i luoghi e i loro riflessi che l’autrice insegue, in un percorso della memoria che diviene presa di coscienza della realtà, attraverso monti, valli, profumi, colori: il ronco, la casa divisa, il paese, l’arancio delle rose, la carrozza della madre che non torna, i merli, il graticcio delle rose, i nonni dalle mani nodose come rosmarini, abbarbicati ai nipoti, tutte voci di una lingua di poesia che costruisce se stessa nel confronto con la propria storia.
“Bianca inerzia. Egotica”, terza parte del Canto, si apre “con un botto e un frastuono”. Qualcosa dirompe dalla memoria, per forza d’inerzia, e nella lunga poesia che dà il titolo alla sezione, la bianca figura di donna che disprezza il letto coniugale e che è condannata a vagare “sciolta come un animale” prende contorno “dentro la casa / che s’inazzurra”, prende parola, impasta finalmente senso (in “Canto d’impasto”, una delle poesie più evocative), in cui il canto possa sciogliere la voce, ammorbidirla, “in un amalgama dove il sugo/ del mondo attacchi il suo sapore” (dalla prefazione di Loredana Magazzeni)

applicata alla nuda realtà
Applicata alla nuda realtà
- nessuno può esigerne uno sguardo -
non propone situazioni, mancando attenzione
resta sospesa scrutando chiunque entri
chi chiude la porta
di continuo spaziando
all’interno del luogo ch’è preposto.
Per inciso, non c’è nessuno che chieda
nessuno che guardi dalla sua parte.



Enea Roversi

Asfissia

[...]
Ma cosa è mai l’Asfissia di cui parla Roversi?

Stando alla definizione letterale del termine, siamo in presenza di una condizione che nega la libertà di respiro ed ossigenazione, una condizione che provoca soffocamento e, figuratamente, noia, oppressione, appropriazione e disappropriazione, schiavitù, distacco e impotenza, reazione o abbandono.

Asfissia, dunque, è mal du vivre, è noia nell’accezione esistenziale del termine, ma non solo. Asfissia è presa di coscienza di una condizione limite da combattere, è necessità di respiro e riscatto, condizione precaria che denuncia e non si arrende, ma si dimena, si rifiuta, si contorce in una lotta estrema contro il tempo, contro la realtà sociale, contro gli ingranaggi che stritolano senza perdono.

imperativo non nascondere /la testa mai (attenzione) / dalla realtà marcita / vuota e disillusa / irreale e irrisolta / ci siamo dentro tutti / magra consolazione

Asfittico dunque è il presente che si dispiega come un cumulo di rovine, un ammasso di cemento che ha divorato gli spazi del vivibile, ornandoli di eccesso “inutile”, di superfluo destinato a travolgerci tutti. L’uomo appare spettatore malinconico e inerme – “un tempo l’immaginario viveva / in trame intricate di fili d’erba / ora abbiamo l’inutile tutto” – soggiogato da se stesso, dai finti bisogni che si è imposto – “incombe sovrana /la pubblicità” – dagl’ingranaggi dell’economia e del mercato, “eretica parodia della modernità”.

Verrebbe da chiedersi a questo punto, come l’uomo si sia potuto rendere schiavo di se stesso, e la risposta arriva, arriva come una sentenza: “ci manca l’anima purtroppo”

Ecco, su questo verso mi sono a lungo interrogata: di quale “anima” parla il poeta Roversi?

Dalla lettura dell’intera silloge, ciò che si dimena in questo stato di asfissia, è la lotta, la necessità di denuncia di una realtà che mortifica l’uomo e che viene additata, spogliata, scarnificata e mostrata, perché non soddisfi, perché – appunto – provochi “asfissia” .
[...]
(dalla prefazione di Natàlia Castaldi)


il conto

domino senza effetto
le carte giocate
con rovello
la scelta prima o poi
si dice che è dovuta
ed ecco qualcuno arriva
prima o poi si sa
maitre dai modi freddi
a presentarti il conto
a dirti mi dispiace
soltanto un poco invero
e tocca a te pagare
per le lacrime versate
le discese schivate
gli specchi concavi
dove muore lo sguardo
tacere di quell’obolo
così mal sopportato
infine accorgerti
che quel conto è sbagliato
il dessert tu non l’avevi
neppure ordinato.



Se vi interessa questo libro, vi consiglio di consultare la scheda sul sito delle Edizioni Smasher (Link).
 
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